Quartu Sant’Elena, notte fonda. Nel Cagliaritano, al culmine di una lite tra le mura domestiche un 17enne ha preso in mano un coltello e ha colpito il padre ferendolo alla schiena. L’uomo è stato trasportato d’urgenza in ospedale ma non è in pericolo di vita. Un genitore ferito dal figlio, una madre che prova a coprire il gesto, e noi che leggiamo l’ennesima notizia di cronaca con la solita reazione: “raptus improvviso”.
Ma il raptus è solo un comodo alibi. Serve a tranquillizzarci, a farci credere che la violenza esploda dal nulla, senza preavviso. Invece, è spesso l’ultimo stadio di un malessere accumulato e trascurato troppo a lungo. Non possiamo conoscere i dettagli intimi di questa famiglia, ma possiamo riflettere su un contesto più ampio che coinvolge molti giovani di oggi. Certo, viviamo in un’epoca in cui ai ragazzi si dà tanto, spesso troppo, prima ancora che abbiano il tempo di desiderare. Ma il problema non è solo questo. La questione è più sottile, più complessa. Non è solo il “tutto e subito” a renderli fragili, ma la mancanza di spazio per crescere, per emanciparsi, per sbagliare e confrontarsi con la frustrazione in modo sano.
L’adolescenza, per sua natura, è un tempo di ribellione, un momento in cui si cerca di distaccarsi dalle figure genitoriali per costruire la propria identità. Ma oggi, in un mondo dove gli adulti cercano sicurezza e tranquillità, spesso finiscono per trattenere i giovani in una morsa invisibile. Non si tratta solo di amore o protezione, ma anche di una paura nascosta: la paura di perdere il controllo, di vederli cadere, e forse anche di confrontarsi con il proprio ruolo di genitori. E così, anziché accompagnare i figli nel difficile percorso verso l’indipendenza, molti adulti li trattengono, soffocandone lo sviluppo. Questo porta a un cortocircuito. Da un lato, si dà loro tutto materialmente, dall’altro, si nega il vero spazio per crescere interiormente.
Il risultato? Quando un “no” arriva, anche il più banale, non sanno come gestirlo. Non hanno mai avuto occasione di confrontarsi con i limiti, con la mancanza, e così la frustrazione si accumula, silenziosa ma potente. E quando esplode, lo fa spesso dentro le mura domestiche, quelle stesse mura che avrebbero dovuto offrire protezione, ma che diventano un campo di battaglia. La vera questione, quindi, non è solo che abbiamo dato loro troppo, ma che, insieme a quel “troppo”, non abbiamo dato abbastanza spazio per il desiderio, per la costruzione della loro identità autonoma. E questo vuoto non si riempie con oggetti o con successi scolastici, ma solo con la possibilità di essere visti, ascoltati e lasciati liberi di affrontare le loro paure e frustrazioni.
La riflessione che dovremmo fare, allora, va oltre la facile condanna del “tutto e subito”. Dobbiamo chiederci come, come adulti, stiamo accompagnando i giovani nel difficile compito di diventare se stessi. E dobbiamo farlo prima che il disagio accumulato trovi la sua espressione in gesti che cambiano per sempre le vite di tutti.
Articolo di: Giuseppe Lavenia
Fonte: www.repubblica.it